“Caro Shepard, vorrei ringraziarti per aver messo il tuo talento a disposizione della mia campagna elettorale. Il messaggio politico dei tuoi lavori ha spinto gli americani a credere nella possibilità di un cambiamento. Le tue immagini hanno un forte impatto sulle persone, che siano ammirate in una galleria d’arte o semplicemente per strada. Mi sento privilegiato, per essere diventato oggetto del tuo lavoro, e orgoglioso del supporto che mi hai dato. Ti auguro di continuare ad affrontare con successo la strada della creatività. Sinceramente, Barack Obama».
Così Mr. President all’indomani dell’ormai lontano trionfo elettorale, al quale contribuì il celebre poster intitolato Hope , diffuso in più di 500 mila esemplari e disegnato da Shepard Fairey alias Obey. Ex vandalo metropolitano, Obey era destinato a lasciare un’impronta indelebile sull’elezione del primo capo di Stato afroamericano nella storia degli Usa, dopo anni trascorsi a coprire di adesivi interi quartieri e varie incursioni nell’immaginario e nei consumi collettivi secondo le regole non scritte di streetart e guerrillamarketing, si trattasse di fare propaganda contro la guerra in Iraq o pubblicità a multinazionali come la Levi’s.
Shepard Fairey, nato nel 1970 a Charleston, South Carolina, figlio di un medico e di un’agente immobiliare, da ragazzino non si separa mai dallo skateboard: ma dato che in quel buco di provincia non trova né adesivi da appiccicare alla tavola né magliette dei gruppi punk preferiti, decide di adottare il principio del «Do It Yourself». È il primo passo di un percorso che lo porterà a mettere in gioco la propria credibilità di strada, vedi le critiche ricevute per le collaborazioni con certi brand, anche se di recente ha appoggiato la protesta di Occupy Wall Street sia con i suoi manifesti sia segnalando sul suo sito i numeri di telefono del sindaco di New York Bloomberg, del governatore Cuomo e dei responsabili dei vari distretti di polizia dopo gli sgomberi e le cariche dei giorni scorsi. Ma la sua storia non priva di ambiguità – raccontata con dovizia di particolari e approfondimenti da Sabina De Gregori in Shepard Fairey, in arte Obey (Castelvecchi, pp. 215, 24), volume riccamente illustrato che è a un tempo biografia critica e catalogo – è in realtà l’ennesima versione del Sogno Americano, anche se le opere del Nostro non devono nulla a Norman Rockwell ma moltissimo alla tradizione figurativa del realismo socialista e alle atmosfere di film come Brazil e a 1984 .
Proprio negli Anni 80, Fairey si trasferisce a Providence e nel 1992 si laurea alla Rhode Island School of Design. Ma già dal 1989 comincia a riempire ogni superficie possibile con adesivi ispirati alla figura di André The Giant, icona del wrestling. Ben presto decide di non limitare le sue incursioni alla città di residenza, e prende a imperversare su e giù per gli States. In breve, diventa oggetto della curiosità di coetanei e non, e di lui si accorgono sia i media sia i tutori dell’ordine. Risultato: colleziona quindici arresti. Nel frattempo ha elaborato uno stile suo partendo dall’interesse per il Costruttivismo russo e la propaganda sovietica, l’opera dell’illustratore Milton Glaser (l’ideatore del logo I LOVE New York) e quella dell’artista concettuale Barbara Kruger. Diventa famoso come Obey, e mentre ritrae con tecnica da poster-art in stile post-bolscevico i suoi eroi musicali, da Joe Strummer a Johnny Cash, fa sua la celebre frase di Majakovskij: «Le strade siano i nostri pensieri e le piazze le nostre tele», consapevole, come Marshall McLuhan, che «il mezzo è il messaggio». Non a caso stila un vero e proprio manifesto, esplicitando influenze insospettabili: «Ho capito molto tardi che il mio amore per i Sex Pistols e il mio interesse per Heidegger erano intimamente collegati».
Esposto nella galleria newyorkese di Jeffrey Deitch poco prima che questi diventi direttore del Museo d’Arte Contemporanea di Los Angeles, Obey incrocia il mondo della moda sostenendo di non tradire né l’ideologia né l’iconografia delle origini, basate sulla presa di coscienza, e si vede commissionare dalla Penguin le copertine per le nuove edizioni dei tascabili di Orwell. Per il suo ritratto di Obama, finito sulla copertina di e acquistato dalla National Portrait Gallery di Washington, viene citato in tribunale dall’Associated Press: nel realizzarlo ha utilizzato una foto senza curarsi del diritto d’autore. Davanti ai giudici mente, si aggrappa a documenti falsi. Dopo due anni le parti arrivano a un accordo, i cui termini restano confidenziali. L’illustratore californiano Mark Vallen intanto lo accusa di plagio, come se Andy Warhol o Jamie Reid non fossero mai venuti al mondo. Di sicuro ha ragione Sabina De Gregori, quando scrive che Obey è riuscito a «creare un nuovo modello di arte e di produzione, distruggendo le aspettative e intorbidendo le distinzioni tra arte e business». Che ne dite? Vi ricorda qualcuno?
di Giuseppe Culicchia