Parla il mercante divenuto direttore del Moca di Los Angeles: «Il mio compito è coinvolgere le persone più lontane dal mondo delle mostre»
Quando poco più di un anno fa il Moca, il Museo di arte contemporanea di Los Angeles, diede l’annuncio che Jeffrey Deitch era stato nominato come nuovo direttore, il mondo dell’arte ebbe un sussulto. Era un po’ come se Renato Vallanzasca fosse stato nominato ministro della Giustizia. Mai prima di allora un mercante d’arte così famoso aveva varcato la soglia di un museo per diventare direttore. In un cocktail tra ipocrisia e moralismo i musei, particolarmente quelli americani, hanno sempre visto come incompatibili il mestiere di vendere arte e quello di mostrarla e curarla in una raccolta permanente. Conflitto d’interessi, anche se poi invece mercato, collezionismo, curatori e direttori vanno a spasso mano nella mano a fiere, biennali e aste. Ufficialmente però un tabù del genere non era mai stato infranto.
Ma se c’era un mercante che poteva rompere l’invisibile barriera, questo era solo Jeffrey Deitch. Un personaggio che da quando faceva il consulente per la Citibank, suggerendo negli Anni 80 gli investimenti in arte, fino al suo «Deitch Project», una galleria a Soho con due spazi, è sempre stato in grado di camminare in equilibrio sul confine fra mercato e arte. In Italia lo conosciamo perché nel 1992 portò al Castello di Rivoli la sua famosa mostra «Post-Human», che sta al mondo dell’arte come la «fine della storia» dello storico Fukuyama sta al mondo degli analisti politici: una profezia mai avverata. Lo abbiamo incontrato a Soho, vicino alla sua vecchia galleria, oggi chiusa per non esagerare troppo con i conflitti d’interesse. È appena tornato da Roma dove ha fatto una tappa dal suo sarto di fiducia Caraceni che lo veste da anni. Impossibile beccare Deitch senza giacca e senza cravatta perfino alle temperature più alte. Anche i suoi occhiali di tartaruga sono fatti su misura, disegnati da lui una ventina di anni fa. Deitch si avvicina ai 60 anni ma non li dimostra. A New York ha vissuto nella Trump Tower quando le cose andavano bene, per poi restringersi in due stanze nell’Upper West Side dopo che era quasi andato in bancarotta finanziando le sculture di Jeff Koons. A Los Angeles, dove lo ha voluto il boss culturale della città, l’immobiliarista e filantropo Eli Broad, Deitch vive nella villa in stile spagnolo che un tempo fu di Cary Grant. «A Los Angeles devi sapere come vivere per poterla apprezzare» mi racconta senza imbarazzo. «Una bella casa dove poter ospitare i tuoi amici con qualcuno capace di gestirla e organizzarla al meglio». Al Geffen Art center, il «braccio armato» del Moca dove vengono presentate le mostre più di avanguardia, ha chiuso da poco «Art in The Streets», una mostra sulla storia e il presente dei Graffiti curata dallo stesso Deitch.
«Abbiamo avuto 201.352 visitatori. Un record nella storia del museo. Sono stato chiamato per questo al Moca: portare nuovi visitatori e aumentare il numero di spettatori». Anche se il mondo dell’arte storce un po’ il naso davanti a certe operazioni… «Ho vissuto, lavorato e guadagnato con quello che lei chiama “il mondo dell’arte” da più di trent’anni. Lo conosco e rispetto moltissimo. Tuttavia il mondo dell’arte non è il mondo reale. Alle fiere come Basilea, alle aperture delle varie Biennali e Documenta non ci va la gente della strada. Ci andiamo noi addetti ai lavori. Abbiamo il nostro linguaggio, i nostri punti di riferimento, che hanno poco a che fare con le persone che l’arte la vivono marginalmente, come un divertimento, non come un lavoro. Il mio compito e quello di un museo pubblico è quello di coinvolgere il più possibile proprio questo tipo di persone. Una mostra come “Art in The Streets”, curata con gli stessi criteri museali di qualsiasi altra mostra più specializzata, ha però raggiunto un pubblico vastissimo. Dimostrando che si può essere curatori o direttori di museo seri e al tempo stesso capaci di allargare la propria base di visitatori». La mostra però ha avuto recensioni contrastanti. Alcuni hanno addirittura detto che incitava il vandalismo sui muri della città. «Non è vero. Caso mai è stato un esempio positivo. Ha fatto capire ai giovani artisti che lavorano con i graffiti che c’è un futuro per loro anche in museo. In questi anni ho capito una cosa: tutti gli artisti che hanno ambizione e vogliono avere successo non hanno nessun desiderio di rimanere sconosciuti a lavorare per strada quando hanno più di 40 anni. Ci sono muri in città dove è legale fare graffiti e altri dove è illegale. È molto semplice. Cercare a tutti i costi l’illegalità è a volte un segno d’immaturità artistica». C’è stata anche una grande polemica perché lei ha fatto coprire un’opera dell’artista italiano Blu. «Su questo c’è stata molta disinformazione. Io non ho censurato il lavoro di Blu, che era anche mio ospite. Quando si partecipa a una mostra di gruppo è importante il dialogo con il curatore e con gli altri artisti. Questo non c’è stato. Blu è arrivato a Los Angeles quando io ero in viaggio e ha fatto questo murale con le bare dei soldati proprio davanti al monumento ai caduti dedicato ai cittadini americani di origine giapponese che morirono nella seconda guerra mondiale combattendo nell’esercito americano. È un luogo carico di significato dove ogni mattina i veterani della guerra vengono a lavare il monumento e a pregare. Non è questione se uno è a favore della guerra o contro la guerra, è una questione di rispetto. Anch’io protestavo contro la guerra del Vietnam ma non ho mai offeso la memoria dei soldati individualmente. Blu sembrava averlo capito ed era d’accordo a tornare per fare un altro lavoro, poi è tornato in Italia e qualcosa è cambiato, si è urlato alla censura. Credo che artisti come Blu abbiano frainteso la lezione di gente come Maurizio Cattelan, uno che sa bene come provocare con la sua arte ma sempre comprendendo e rispettando il contesto. In una grande mostra un’opera, per il piacere di essere provocatoria, non può – come si dice qui – “rubare lo show” agli altri artisti invitati. L’opera di Blu, oltre a offendere i veterani, avrebbe anche fatto questo». Il mondo dell’arte di Los Angeles è diverso da quello di New York? «Los Angeles è un territorio dove è possibile l’intreccio di tanti mondi, più che a New York. Arte, moda, musica, cinema, performance, tutto si può mescolare qui ed è questo che rende questa città particolarmente affascinante». Come si trova nel nuovo ruolo? «È sicuramente un cambiamento, ma già con Deitch Project operavo più come un centro culturale che come una galleria commerciale». A chi la accusa di conflitto d’interesse che cosa risponde? «Che in quasi quarant’anni di attività nel mondo dell’arte ho conosciuto praticamente tutti i protagonisti e ho lavorato con una grande maggioranza di loro anche in modo commerciale. Quindi è impossibile per me escludere nel programma del Moca tutti gli artisti con i quali ho avuto rapporti nella mia “vita precedente”. Vorrebbe dire non lavorare più con nessuno, non fare più mostre, non avere più prestiti dai collezionisti». Una vita dopo il Moca ce l’ha in mente? «Il mio sogno sarebbe quello di aprire una fondazione in Italia dove mostrare la mia collezione \ e ritirarmi a scrivere d’arte». Nessun conflitto in questa decisione? «Direi proprio di no».
di Francesco Bonami
Lastampa.it